Commento all’antologia

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di G.D. Corsini

Nelle mie antologie sugli scrittori si parla di avvenimenti che trascendono l’ordine naturale delle cose. E che hanno come protagonisti (evidenziati nel testo) dei semplici manufatti o prodotti della Natura: un poggiapiedi di seta, delle tende, una finestra, alberi, soprattutto fiori, un palazzo, dei campanili o una casetta, il cielo, il Sole, la sua luce, i suoi raggi e le sue ombre, la nebbia, uno pneumococco, una frase musicale, un tovagliolo, un odore, tanti odori, tanti ricordi; ma anche condizioni, episodi, situazioni, stati d’animo, un’attività corporale (sì anche quella considerata più tabù) o sensoriale, un processo chimico, un fenomeno fisico, un’attitudine umana, tutto ciò (anche due dozzinali ciò, pronomi dimostrativi antroporformizzati da Robert Musil) che viene impropriamente animato dalla fantasia degli scrittori. In paradossi spinti ai confini più estremi dell’inventiva e ospitati per questo con gioia tra i “trofei” della mia caccia. Ma presentando l’antologia dedicata specificatamente a Marcel Proust e alla Ricerca del tempo perduto devo prima assolvere un obbligo: chiedere scusa. Spiegherò più avanti il perché.
Pietro Citati scrisse (La Colomba pugnalata, sottotitolo Proust e la Recherche, Arnoldo Mondadori Editore) che si tratta di un’immensa sinfonia, dove ogni motivo ritorna a distanza di centinaia o migliaia di pagine e si intreccia con gli altri in un’architettura musicale inestricabile. Altri critici l’hanno definita un’opera mondo, un’enciclopedia, una cattedrale, un monumento filosofico, una grande avventura umana e tanto altro ancora. Giacomo Debenedetti, che scriveva i primi saggi su Proust a partire dal 1925, quando Le Temps retrouvé non era ancora pubblicato, volle classificarla come Un’immensa istruttoria di un geloso, riferendosi a un ambito specifico dell’ambizione filosofica, psicologica e letteraria dell’autore. Lui stesso in un’altra circostanza ha magistralmente sintetizzato in poche righe, la magica capacità dello scrittore di incantare i suoi appassionati lettori. In Rileggere Proust, saggio del 1946, scrisse: Fu colui che meglio ci diede l’illusione di essere venuto a manifestare tutte le cose che a noi urgevano sulla punta della lingua, ma non le sapevamo articolare. L’illusione, ancor più, di aver trovato il segreto, la formula magica per rendere sensibile attraverso le parole ciò che dentro di noi si agitava informe e nostalgico di luce – ma di una particolare luce, tuttavia, che rispettasse anche l’ombra – insomma l’incognita psicologica e sensibile, quella della nostra personale equazione con la vita, che tutti abbiamo sulla punta della lingua ma che si dilegua non appena tentiamo pronunziarla.

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Quel che è indubbio infatti della Recherche è che si tratti di un universo esplorativo della psiche e dell’animo umano, incentrato per gran parte sulle sue debolezze, meschinità, inganni e autoinganni. Sentimenti che meglio di ogni altro caratterizzano il comportamento sociale della razza animale classificata come più evoluta e nello specifico di quella che era in Francia la casta dominante nel corso della Belle Époque.
Un pot-pourri di nobili più o meno decaduti e di ricchi borghesi che, mentre sullo sfondo i lavoratori del popolo sono guardati con disprezzo per il fatto stesso di essere affaccendati nelle umili attività quotidiane indispensabili alla sopravvivenza, si impegnano quasi a tempo pieno e senza esclusione di colpi nella “guerra” per accaparrare ai loro salotti le personalità più in vista. Una gara affidata alle armi taglienti della lusinga, del disprezzo, della calunnia, della menzogna, dell’inganno, del tradimento, di parole che non dicono, di sguardi che strillano e di apparenze senza costrutto. Le generalesse e i generali di questo conflitto, nello strategico imbastire degli intrecci interpersonali, sono virtuosi insuperabili nell’uso di un’arma paralizzante a danno degli occasionali interlocutori: la gelida indifferenza mascherata da repentina cecità o sordità. O, quando non basta, la pura scortesia; quando invece è il caso, sfoderando l’ospitalità più amabile, che comunque quasi mai esprime i reali retropensieri. Con inclusioni ed estromissioni che di volta in volta provvedono a selezionare la formazione migliore da schierare in una soirée o come platea di una matinée. Il tutto nella cornice di un galateo fitto di regole imperscrutabili e inchini improbabili, con scenari a tratti irresistibilmente esilaranti. Nell’ultimo volume la mondanità è sorpresa dalla guerra, quella vera, che tuttavia rimane sullo sfondo della vita dei gaudenti, a Parigi e in provincia, senza guastar loro troppo la festa. Come Toulouse Lautrec dipinge, così il suo contemporaneo Marcel Proust racconta con lucidità, e a tratti con feroce sarcasmo, il “dietro le quinte” di una grottesca commedia umana.

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Centottanta pagine, nella Strada di Swann, sono dedicate alla gelosia per Odette de Crécy del più noto personaggio della Recherche, che dà il titolo al primo volume; altrettante sono dedicate nella Prigioniera alla soffocante, se vogliamo malata o ridicola o codarda, a seconda della prospettiva di chi legge, gelosia dell’io narrante (che non necessariamente coincide con lo scrittore) per Albertine. Il protagonista poi, nel Tempo ritrovato, divaga per 208 pagine, tra i pensieri, che accompagnano l’attesa in anticamera prima di essere ammesso a una matinée nel palazzo dei Guermantes, e le successive impressioni che gli fanno gli altri invitati: tutti conoscenti che non vedeva da lustri e che trova irriconoscibilmente trasformati dalla deformante maschera della vecchiaia. Altre grandi pagine sono dedicate dal sublime perditempo (come è stato definito lo scrittore) alle intermittenze del cuore, quei soprassalti che si presentano alla mente come doni della memoria involontaria, o per dirla con Joyce, le epifanie, che gli consentono di ritrovare (vedi la celeberrima madeleine, la piccola frase di Vinteuil o i campanili di Martinville) una sensazione, un nome, un sapore, un tema musicale, un rumore, un colore, un oggetto solo apparentemente banali. Ebbene a dispetto di ciò, nel Tempo ritrovato Proust respinge un’altra definizione, che gli è stata affibbiata, di rovistatore di particolari che usa come strumento di indagine un microscopio. Spiega infatti di non aver usato un microscopio, bensì un telescopio, per scorgere cose piccolissime, sì, ma perché situate a grande distanza e ciascuna delle quali costituivano un mondo. Il risultato è un insieme di saggi o più brevi introspezioni che scandagliano la mente umana fino alle sue bassezze più imbarazzanti.

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Giovanni Macchia, in Proust e dintorni, riporta un commento di Alfred Humblot, rappresentante della casa editrice Ollendorf, che per terza in ordine di tempo respinse il manoscritto: Sarò forse duro di comprendonio, ma non posso capire come un tale possa impiegare trenta pagine per spiegare come egli si giri e si rigiri nel suo letto prima di addormentarsi. Eppure, in seguito, moltissimi altri hanno capito. E hanno assistito, come di fronte a un miracolo – letterario, si intende –, all’incipit più famoso della storia della letteratura (Longtemps, je me suis couché de bonne heure) e alle successive pagine tanto disprezzate da Humblot. Un miracolo che per milioni di lettori ha nutrito la prima spinta a proseguire nella lettura, senza più volersi fermare. Settantacinque anni dopo l’invenzione di quell’incipit, Enrico Medioli, sceneggiatore di C’era una volta in America, fece rispondere Sono andato a letto presto da Robert De Niro, nei panni di Noodles, al suo amico Fat Moe che gli chiedeva che cosa avesse fatto negli ultimi trent’anni. Per molti una delle battute più azzeccate (azzeccata sì, ma purtroppo rubata) della storia del cinema.
Si sbaglierebbe chi pensasse che tutta la mole di lavoro analitico dello scrittore si cristallizzi alla fine unicamente nella fotografia di un irripetibile momento storico e sociale; perché gli strumenti di indagine che l’artista regala al lettore lo arricchiranno della capacità di leggere in falsariga anche la propria attualità, il proprio inconscio e di svelare i pensieri nascosti in certe affermazioni e atteggiamenti, comprendendo meglio l’intima natura di ciò che appartiene alla sua esperienza. Proust rivendica questa qualità della sua narrazione quando, nel Tempo ritrovato, afferma: In realtà, ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è solo una specie di strumento ottico offerto al lettore per consentirgli di discernere ciò che forse, senza quel libro, non avrebbe potuto intravedere in se stesso.

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Soprattutto per questa ragione nutro per Proust una grande riconoscenza. Secondariamente, inutile negarlo, perché il suo lavoro ha rappresentato un nutrimento inesauribile della mia esplorazione letteraria. I protagonisti di quest’opera monumentale, al pari dei personaggi maschili e femminili, sono spesso gli oggetti. A cui il narratore attribuisce, voce, pensieri, consapevolezza, saggezza e intenzioni. Così dove per gli altri scrittori è una deroga attribuire alla materia inorganica parole, gesti e sentimenti, per Proust è la norma. Con poche eccezioni. Fino a divenire un canone letterario che, portato alle estreme conseguenze, ci svela nel più profondo l’anima delle cose. Nella Strada di Swann spiega: Poiché credevo alle cose, agli esseri, mentre le percorrevo, le cose, gli esseri ch’esse m’hanno fatto conoscere sono i soli che io prenda ancora sul serio e che mi diano ancora qualche gioia. Per Proust le cose contengono e conservano nel tempo un’essenza nascosta che dà un celeste nutrimento all’io di chi sa svelarla. E aggiunge: L’arte non è sola a porre incanto e mistero negli oggetti più futili: quel medesimo potere di metterli in rapporto intimo con noi è devoluto anche al dolore.
In letteratura come nel cinema, i personaggi principali, i figuranti e le comparse appaiono nei loro rispettivi ruoli in funzione della trama. Ci sono i buoni, i cattivi, i metà buoni e metà cattivi, le figure non indagate dagli autori, quelli di puro contorno e così via. E ci sono, come è ovvio, gli oggetti inanimati che hanno generalmente (fanno eccezione i fantasy e i cartoni) un ruolo di presenza tecnica o di puro arredamento. L’illusionista britannico Nevil Maskelyne, autore di numerosi libri sulla magia, fra i quali The Art in Magic, pubblicato nel giugno del 1908, doveva avere un rapporto molto conflittuale con gli oggetti, visto che in quel saggio (anticipando la successiva legge attribuita a Edward Alysius Murphy) era arrivato a scrivere: Tutto quello che può andare storto lo farà, imputando la responsabilità degli eventi negativi alla malvagità della materia e alla totale perversione delle cose inanimate.

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Basterà scorrere i brani della presente antologia per rendersi conto che il Proust narratore, al contrario di Maskelyne, ebbe con gli oggetti un rapporto tutt’altro che conflittuale. Per la stragrande maggioranza delle volte infatti essi osservano, o agiscono, senza interferire nella vita dei personaggi. In alcuni casi si dimostrano amici. In pochissimi altri appaiono ostili, come, per citare qualche esempio, le celebri tende rosa, una poltrona, un poggiapiedi e le lampade di un albergo. Più avanti, nell’antologia, è facile verificare questo dato.
Ma per comprendere appieno il rapporto intimo tra Proust e le cose, più di tutto possono aiutare due testimonianze dirette dell’atteggiamento dello scrittore in altrettante particolari circostanze. Entrambe sono riferite da Mario Lavagetto nel saggio Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, Torino, 1991. Nella prima Reynaldo Hahn, compositore e amico intimo dello scrittore, racconta che durante una passeggiata, di fronte a un cespuglio di rose del Bengala, Marcel si bloccò pregandolo di lasciarlo solo. Hahn fece un lungo giro e al suo ritorno lo trovò nella stessa posizione, la testa inclinata, il volto grave, come se ricevesse un messaggio che tentata di decifrare. Nella seconda Ramon Fernandez, scrittore, giornalista e critico francese, spiega come durante una visita di Proust nella sua casa, dove non aveva mai messo piede, i suoi occhi si incollarono letteralmente ai mobili, alle tende, ai soprammobili: guardava tutto come un medium che ricevesse messaggi invisibili dalle cose.

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Nella mia selezione ho applicato su tutti gli scrittori il rigido criterio che esclude i pezzi resi inadatti da locuzioni, verbi o avverbi o qualunque altro espediente linguistico teso a moderare gli azzardi narrativi; ho escluso insomma quelli “difettosi”, come fa il filatelico con i francobolli che hanno la dentellatura rovinata o la colla non integra. Intendendo per “difettoso” – sia detto con tutto il rispetto dovuto all’arte letteraria – un brano che appoggia il cimento descrittivo sul supporto di un verbo dubitativo (sembrare, parere, far pensare a), o di un avverbio di maniera (come, similmente), di una locuzione prepositiva (a guisa di, quasi che, in certo modo), o di un sostantivo di comparazione (una sorta di), o ancora un inopportuno, per le mie esigenze di esploratore, tempo condizionale (si sarebbe detto che) o anche soltanto di una excusatio non petita (si può ben dire che). Anche l’uso delle virgolette, con funzione di distanziamento, come quelle che ho appena incollato poche righe qui sopra alla parola difettoso, rendono il brano inutilizzabile. Nelle primissime pagine dei Guermantes ad esempio Proust scrive: ...mi sentivo penosamente rigonfio a causa di un lungo armadione che la mia vista non aveva ancora “digerito”. Le virgolette contrassegnano un’espressione di tipo metaforico. Vuol dire questo che le metafore nella mia caccia sono depennate? Lo sono soltanto se lo scrittore le indica esplicitamente come tali. Per fare un altro esempio, se Joseph Roth (il secondo autore in ordine di importanza come produttore di prodigi, seguito da Elias Canetti, Robert Musil e James Joyce), anziché scrivere di mani che si toccano sul piano del tavolo, per subito allontanarsi l’una dall’altra con autonomi sentimenti di vergogna, avesse scritto di mani che si toccano sul piano del tavolo, per subito allontanarsi l’una dall’altra quasi avessero autonomi sentimenti di vergogna, il brano non sarebbe stato incluso nei risultati dell’esplorazione per “difetto di affermazione” o, se preferite, di “audacia”. E all’opposto se Proust anziché i garofani nei vasi sembravano spiare attenti l’apparizione tardiva della padrona di casa, avesse scritto i garofani nei vasi spiavano attenti l’apparizione tardiva della padrona di casa, questo brano, sarebbe stato accettato, anziché escluso, a tutto titolo assieme agli altri. E analogamente, con non poco disagio e vergogna, ho dovuto escludere dalla raccolta Michelangelo Buonarroti per la descrizione, in una sua rima, della passione espressa dalla cintura di una veste che cinge il seno di una bella donna augurandosi che il contatto duri il più a lungo possibile (“E la schietta cintura che s’annoda mi par dir seco: qui vo’ stringer sempre”), perché lo scrittore introduce il soggetto della frase con un prudenziale “mi par” (rima numero 4 delle sue 302).

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A proposito dell’esempio che ho fatto sulle esigenze di un filatelico ci tengo a sottolineare, nel modo più assoluto e rigoroso, che quella di cui sto parlando non può essere definita né in alcun modo considerata una collezione o raccolta. Lo dico, non tanto perché queste siano espressamente vietate dalle attuali leggi dello Stato se non ha concorso la mediazione di un commerciante che abbia ricavato un utile nella compra vendita dei singoli pezzi, ma perché lo spirito con cui ho compiuto la mia caccia non è quello di un collezionista, quanto piuttosto di un qualunque lettore accanito che vive dei libri e dei loro dettagli: le copertine, l’odore, le trame, il senso degli avvenimenti descritti, i sentimenti che ne emergono, financo i punti, le virgole e, soprattutto nel mio caso, i punti e virgola. E di conseguenza non possa fare a meno di estrarre e appuntare le minuzie e i particolari che più lo conquistano.
Anche una persona che in vita sua abbia letto soltanto lettere commerciali o manuali d’uso di elettrodomestici, saprebbe riconoscere l’intrusione del fantastico nel reale come licenza artistica. Roth confida nella dinamicità delle menti. E tuttavia, ogni tanto, lui come altri scrittori, come lo stesso Proust, sembrano colti da una sorta di pudore, quasi a pentirsi di quelle che forse giudicano licenze artistiche troppo numerose, volendone dunque proporre alcune come pure metafore, esplicitandole dietro un come o un pare o un sembra. Ahimè, in questi casi la cautela rende i brani inservibili per la mia ricerca; ma così sia: i narratori non possono essere certo costretti dalle esigenze di un esploratore folle a rivendicare in ogni occasione e a ogni costo una natura selvaggia ribelle al conformismo di maniera.

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Con la Recherche ho dovuto poi affrontare un problema. Dalle mie antologie ho sempre escluso, oltre come è scontato il filone fantastico, il mondo della poesia, perché entrambi generi connaturati all’irreale. La poesia, meglio ancora la lirica, richiede, di più, pretende, uno svolgimento con una forte carica suggestiva ed emozionale; per questo nessuno si stupisce se i cipressi alti e schietti balzano incontro a Carducci e lo guardano e se il poeta recita: sorelle foglie vi ascolto nel lamento; o se Pascoli fa sussurrare i pioppi del Rio Salto. Tutto quanto è lirica non può essere dunque accolto in un insieme di avvenimenti che violano le leggi dell’ordinarietà. Perché nella lirica sono ordinari essi stessi. Tuttavia nella Recherche prosa e lirica si inseguono e incrociano per tutto il percorso artistico.
Dalla mia camera buia, con un potere di evocazione uguale a quello di un tempo, ma apportatore solo di dolore, sentivo che fuori, nella pesantezza dell’aria, il sole declinante tingeva d’un colore fulvo la verticalità delle case, delle chiese.
La parete a vetri era traslucida e blu, di un blu di corolla, di un blu d’ala d’insetto, di un blu che mi sarebbe parso tanto bello se non avessi inteso ch’era l’estremo riflesso, tagliante come un acciaio, il colpo supremo che il giorno, nella sua infaticabile crudeltà, ancora mi inferiva.
…ci si ricorda di certi giorni di estate apparsici troppo caldi quando li vivemmo e dai quali, soprattutto a distanza di tempo, si estrae, senza impura lega, il metallo d’oro fino e di indistruttibile azzurro.
Si tratta di tre brani della Recherche. Prosa eccelsa, pura lirica o prosa contaminata dalla lirica? Chi può pretendere di classificarli a ogni costo? Sta di fatto che sono entrati di diritto nei risultati della mia esplorazione tutti i brani, distillati da 3340 pagine, in cui Proust viola l’ordinarietà delle cose.

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Ora chi avrà ventura di leggere, chissà, prima o poi, questa antologia, giudicherà – e non posso dargli torto – che estrarre dall’universo proustiano 233 singoli brani fuori dal contesto narrativo risulta di fatto un’operazione a dir poco irrispettosa. E poco, quasi nulla, posso ribattere a quest’accusa; devo pertanto chiedere perdono allo scrittore e ai suoi estimatori. Ho letto i sette volumi della Ricerca la prima volta da adolescente, a partire per puro caso dal primo, comprato su una bancarella, prima di accorgermi che ce n’erano altri sei. Li ho percorsi tutti, in un lampo. Ma ero troppo giovane per potermi appropriare di tutti i suoi frutti. Mi era parsa soltanto una sublime autobiografia: apparenza ingannevole. L’ho riscoperto in età adulta, ricompletando la lettura, sbalordito per le novità che vi trovavo. E in questa circostanza ho sottolineato tutti i passaggi letterari che più mi colpivano, le immagini poetiche, quelle più ironiche, gli aforismi. E visto che da anni avevo preso l’abitudine di estrapolare dai romanzi le fughe dalla realtà e dal conformismo narrativo, l’ho fatto anche in quella circostanza. Purtroppo ho smarrito, non so come, non so dove, forse prestati e mai rientrati, forse in un trasloco, La strada di Swann e All’ombra delle fanciulle in fiore che possedevo nelle edizioni degli Struzzi Einaudi. E con essi le sottolineature e gli appunti che contenevano a bordo pagina. Mi sono così proposto di rileggere prima o dopo, con questi due volumi, tutta la Recherche. Per la terza volta. Ma sono passati decenni. Quando l’ho fatto sono rimasto risbalordito dal fascino di questo immenso capolavoro. Come se precedentemente non l’avessi già letto e riletto. Scherzi della memoria? Probabile. Ma la ragione più vera è che la Ricerca del tempo perduto, come tutte le opere di levatura, ad ogni successiva lettura è in grado di offrirsi con nuove e sempre più emozionanti chiavi interpretative.

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Il ripetuto utilizzo in questa mia nota di aggettivi al superlativo può risultare stucchevole, ma se il superlativo non si addice a Proust, autore per altro di uno dei romanzi più lunghi di sempre, allora tanto varrebbe cancellarlo dai valori lessicali. Ed è opportuno a questo proposito chiarire che Marcel Proust non ha attraversato soltanto momenti di gloria. Lo hanno criticato anche illustri personaggi come Croce, D’Annunzio e Prezzolini; dopo la sua scomparsa, il 18 novembre 1922, l’elogio è diventato apologia; nell’immediato dopoguerra la critica è degenerata in denigrazione. Fino al riconoscimento, pressoché unanime, che perdura ai nostri giorni, della sua maestria. Arrivando a fare dello scrittore un proverbio di larghissimo consumo (Giacomo Debenedetti, Commemorazione di Proust, saggio pubblicato per la prima volta su Il Convegno, 1928).
Qualcuno potrebbe osservare che nella Recherche c’è più di un qualcosa che appare malsano: l’aperta misoginia del narratore, la sua morbosa attenzione a una presunta maggior disponibilità sessuale delle popolane, la rappresentazione sordida dell’omosessualità, con la condanna ossessiva nei confronti dell’amore lesbico e appena un po’ più indulgente nei confronti di quello tra uomini. A costoro va ricordato che i sette volumi dell’opera percorrono la vita di un personaggio di invenzione, il narratore, e soltanto in parte quella dello scrittore: esistenze che si incrociano in modo occasionale.
Il narratore per sole due volte e per dichiarata comodità viene denominato Marcel. Come quando un giornalista per preservare l’anonimato del protagonista minorenne di una storia di cronaca nera scrive: Chiamiamolo Franco; il che non gli impedisce di chiamarsi Franco lui stesso. Ma non si può neppure pretendere di ignorare la complessità del tema separando chirurgicamente il narratore dall’autore. Ancora Piero Citati scrive: Dobbiamo essere attenti. In quella voce unica stanno nascoste due persone, fuse nello stesso involucro: Marcel il Narratore, e Marcel Proust, l’”Autore di questo libro”, che ogni tanto si distacca invisibilmente dal primo Marcel, e, dietro le sue spalle, fa un piccolo cenno, che ci spalanca un orizzonte diverso. Nulla è più facile che sbagliare, confondere le due voci, e fraintendere il significato del libro. Se vogliamo capire, dobbiamo avere nella memoria l’intera Recherche e tutti i personaggi e i paesaggi e i motivi e le immagini e le parole, che formano un solo intreccio.

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È anche vero che la discussione inestricabile e tutt’ora irrisolta sul rapporto tra l’io narrante e Proust non può essere rescissa con una semplice negazione e una traumatica amputazione. In un altro suo saggio Giovanni Macchia (L’angelo della notte, edizione Rizzoli) riporta una notizia, che lo stesso critico precisa non aver mai trovato conferma, secondo cui, alcuni giorni prima di morire, Proust, tra gli spasimi dell’asfissia, continuando a dettare, avrebbe chiesto di integrare, con ciò che egli, moribondo, provava in quel momento, l’episodio della fine di uno dei suoi personaggi, Bergotte, non a caso celeberrimo scrittore. Quasi – commenta Macchia – che egli intendesse in tal modo scrivere, sopra dati d’esperienza, la storia della propria morte: disperato tentativo per utilizzare quanto, poco tempo dopo, sarebbe andato disperso, perduto, morto per sempre. Un indizio da ascrivere alla tesi di chi tra i critici voleva a ogni costo classificare la Recherche come un’autobiografia? Fu interminabile la polemica dello scrittore con il critico Sainte-Beuve e il suo metodo per la valutazione delle opere letterarie, basato sullo studio minuzioso della vita degli autori e autodefinito presuntuosamente scientifico e oggettivo. L’opposizione di Proust a questo metodo fu condotta in modo virulento, financo eccessivo. Ma la più efficace confutazione è tutta contenuta in una sola frase, ancora una volta della Recherche: La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura.
Per quanto riguarda il mio modestissimo parere, ritengo che non si possa attribuire a Proust un atteggiamento misogino o autolesionisticamente omofobo, più di quanto non si possa incolpare Ovidio per non aver esplicitamente condannato ogni orrore che descrive nelle sue Metamorfosi: dallo stupro, all’incesto, all’infanticidio, al cannibalismo. Se poi qualcuno altro affermasse che Proust, nella sua vita reale, non è mai stato un esponente d’avanguardia di quell’orgoglio omosessuale oggi punito come un crimine… non potremmo certo dargli torto.

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Al di là di queste considerazioni tematiche, tutta l’opera ha assunto ai miei occhi una sacralità che mi ha indotto a riflettere sulla selezione che avevo portato a termine. Scalpellare un’opera d’arte isolando dal suo insieme dei singoli brani somiglia alla profanazione del turista barbaro che si appropria per ricordo di frammenti in un sito archeologico. Ma l’oltraggio ormai è fatto. E non saprei come altro porvi rimedio se non motivare il mio irrispettoso passatempo con la premessa che avete appena letto. In conclusione lasciatemi affermare che, se apprendessi che la lettura del presente lavoro ha invogliato anche soltanto una persona che non lo ha ancora fatto ad affrontare la Recherche, questo mi farebbe sentire meno colpevole.
Utile fare un accenno ai personaggi principali, tra i circa quattrocento dell’intera Ricerca. Ne ho evidenziati una trentina che si incontrano nella lettura dei brani dell’antologia. La famiglia del narratore è composta dal padre, dalla madre a cui è legato da un amore lancinante, dall’adorata nonna Bathilde, dal nonno Amédèe, dallo zio Adolphe, dalla zia Léonie e anche da quell’incredibile caratterista, a tutto titolo da considerarsi di famiglia, che risponde al nome di Françoise. Prima cuoca a casa di Léonie, poi governante e tuttofare in casa del narratore. Fra quelle mura lei si sente regina incontrastata – e in parte lo è – che crede di sapere tutto, di conoscere tutto e soprattutto di intuire tutto. E in parte è vero. Il narratore è esasperato dai suoi giudizi, lasciati intendere o espressi a mezze parole, sulle sue frequentazioni, soprattutto amorose. Cerca di smentirli, ma inutilmente. Perché ogni convinzione di Françoise è granitica: dal valore o meno degli individui, alle ricette di cucina, ai massimi sistemi. E allora il narratore, pur ammettendo che si tratta di una rappresaglia ignobile, la umilia ogni volta che può spiegandole che la lingua in cui si esprime è un pessimo francese guastato dall’influsso dialettale. Ma Françoise è inossidabile. Del resto nessuno potrebbe mai sognarsi di sostituirla, in quanto istituzione di famiglia. Famiglia che si piega, tutta, a una sua condizione non trattabile: lei è disponibile a ogni ora del giorno e della notte, per tutto quanto è necessario, ma durante la prima colazione non udrà nessuno scampanellio di chiamata dei padroni. Nessuna cosa al mondo, neppure se la casa andasse a fuoco, potrebbe indurla ad alzarsi dal tavolo attorno al quale è riunita con il resto della servitù.

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Legrandin è un ingegnere, amico di famiglia, re degli snob che sostiene di disprezzare. Gilberte, figlia di Charles e Odette Swann, amore platonico nell’infanzia del narratore, sposerà Robert de Saint-Loup, duca di Guermantes. Odette è un’ex prostituta, grande amore di Charles Swann: questi è un vicino della famiglia del narratore, borghese colto e raffinato; un altro dei personaggi principali di tutta la Recherche. Oriane di Guermantes, ennesima infatuazione del narratore che si espone al ridicolo per soddisfare l’ossessivo bisogno di incrociarla per strada “casualmente” tutti i giorni durante la passeggiata della nobildonna. Presto scoprirà che è sì dotata di cultura, ma che è una maldicente patologica. La signora Verdurin, borghese milionaria, riunisce tutti i mercoledì un petit clan nei suoi salotti che gestisce con poteri totalitari di inclusione o di esclusione (che equivale alla morte sociale). I mercoledì in casa Verdurin sono un rito sacrale. E quando un appartenente al piccolo clan, amico da una vita, muore non metaforicamente ma per davvero, la padrona di casa non esita a rinnegarne amicizia e stima pur di non disdire l’appuntamento settimanale. In una circostanza analoga il duca di Guermantes per non rinunciare a una festa in maschera definisce un’esagerazione la notizia della morte di un parente. Ammettendo come reale il luttuoso evento solo a festa finita. Il marchese di Forestelle è amico di Swann. La marchesa di Gallardon è una parente dei Guermantes. Il signor di Cambremer, detto Cancan, è un gentiluomo normanno condannato a portare in giro un naso storto che lo fa apparire di una stupidità grossolana. E non dà effettivamente prova di grande facoltà di intendere. Trova molto divertente che il narratore soffra di soffocazioni come la propria sorella, e non perde occasione, anche in sua presenza, di farne oggetto di conversazione e spasso. Sull’argomento, viene spiegato, si sbellicava, non per cattiveria, ma per la stessa ragione per cui non poteva veder cadere uno zoppo o parlare con un sordo senza mettersi a ridere.

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La marchesa Renée-Élodie di Cambremer, moglie del marchese, colta e intelligente, disprezza Chopin ma in compenso ammira Wagner e Debussy. La signora marchesa Zélia di Cambremer, poiché tutte le donne di classe sono tenute ad ammirare al massimo grado un compositore, un pittore o uno scrittore, a dispetto della marchesa Renée-Élodie ammira Chopin e Manet, che poi sostituisce con Monet. Cottard, medico famoso, ma non per questo capace, presenza goffa nei salotti, durante un viaggio in treno per piaggeria nei confronti di una principessa chiama il capotreno per cacciare dalla prima classe un contadino che non aveva trovato posto in terza. Noto per la sua codardia, Cottard in tutto il romanzo ha un solo momento di ardimento, quando la moglie Léontine entrando in un salotto viene ignorata e lasciata in piedi da alcuni sgarbati nobiluomini e lui la invita perentoriamente a sedersi con loro forzando la implicita volontà dei presenti di escluderla dalla conversazione. Il marchese di Norpois è un ex ambasciatore, nonché amante della marchesa di Villeparisis. Costei è zia dei Guermantes e, bontà sua, dipinge fiori. Vinteuil, professore di pianoforte, è autore della celebre sonata che affascina Swann. Bergotte è uno scrittore riconosciuto e stimato dal narratore. Elstir, figura del pittore ideale, secondo il narratore, come Vinteuil per la musica e Bergotte per la letteratura. Albertine Simonet è una delle fanciulle in fiore: il narratore se ne innamora carnalmente e si strugge di gelosia per una sua più probabile che presunta inclinazione bisessuale. Il motivo conduttore del loro rapporto amoroso sono le contorte elucubrazioni che portano il narratore, stretto nella morsa di un soffocante desiderio di possesso, ad applicare nei confronti dell’amata una tattica di accerchiamento psicologico che la rende sostanzialmente prigioniera. Dissimulando i propri pensieri con la puntuale esternazione dell’esatto contrario e tentando di smascherare quelli dell’amata e i presunti tradimenti con improbabili tranelli che dovrebbero farla cadere in contraddizione. La falsità e la menzogna – si giustifica il narratore – erano in me un’istintiva difesa; istintiva forse, ma come si vede nel corso del romanzo del tutto fallimentare.

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Albert Bloch è un borghese, parigino, ebreo, compagno di scuola e amico del narratore; la loro sincera amicizia viene compromessa da un rifiuto del narratore ad allontanarsi dallo scompartimento del treno, dove è seduto con Saint-Loup, Albertine e un gruppo di nobiluomini e nobildonne, per andare a salutare poco più in là il padre di Bloch, Salomon. L’amico naturalmente si addolora per lo sgarbo e il narratore preferisce fargli credere che il suo rifiuto sia stato dettato dallo snobismo piuttosto – come in effetti è – dalla gelosia che gli impedisce di lasciare anche soltanto un istante Albertine in compagnia dell’affascinante Saint-Loup. Andrée, amica di Albertine, è la più grande (di età) delle fanciulle in fiore. Il narratore si innamora anche di lei, ma le dice di non amarla e che l’avrebbe amata se non avesse conosciuto Albertine. Spera così che Andrée, sentendosi svincolata da un legame sentimentale, si renda sessualmente disponibile nei suoi confronti. Piano che ancora una volta deraglia miseramente. Charlus, barone de Guermantes, alias duca di Brabante, nonché donzello di Montargis, Monsignore e principe di Oléron, di Carency, di Viareggio, delle Dune – per gli amici più semplicemente Palamède o Mémé – altro protagonista di primo piano del romanzo, omosessuale, colto, raffinato, sadomasochista. Per il narratore, fa discorsi quasi da folle, ma il lettore constata in almeno un episodio che, oltre a essere per alcuni versi geniale, folle Charlus lo è per davvero, quando chiede al narratore di convincere Bloch a organizzare una messinscena divertente in cui dovrebbe bastonare il proprio padre e frustare la madre. Del resto di folli nella Recherche ce n’è più d’uno. In un episodio un fattorino intrattiene il narratore parlandogli della sorella: Sapete – dice – è una gran signora mia sorella. È molto intelligente. Non lascia mai un albergo senza fare un bisognino in un armadio, o in un comò, per lasciare un piccolo ricordo alla cameriera che dovrà pulire. Qualche volta lo fa persino in carrozza e, dopo aver pagato la corsa, si nasconde in un angolo, a godersi gli strepiti del cocchiere che deve lavare la carrozza.

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Tornando a Charlus, è prima anti dreyfusista acceso, poi dopo aver orecchiato da due nobildonne conoscenti occasionali che contro il capitano imprigionato sull’Isola del Diavolo in fondo non ci sono prove cambia idea e diventa dreyfusista arrabbiato. Charles Morel, violinista virtuoso, bello, amante di donne e uomini, tra cui Charlus, capace di gesti di infame perfidia per bramosia di guadagno, figlio del valletto di zio Adolphe, si vergogna del lavoro del padre (che Charlus definisce un orrendo domestico coi baffi) e per non sfigurare nei salotti scongiura il narratore di mentire in proposito con la signora Verdurin. Charlus e Morel sono protagonisti di uno degli episodi più surreali dell’intera Recherche, quando il barone decide di spiare il violinista all’interno di un bordello di lusso per controllare a chi si accompagni: seguono pagine degne della più incalzante commedia degli equivoci, a metà strada tra farsa e tragedia. Brichot, pedante professore alla Sorbona, parla troppo per esibire la propria cultura scagliando addosso ai suoi sfortunati interlocutori pile di dizionari. La signora Sazerat, frequentatrice dei salotti bene, è una delle rare non ebree dreyfusiste. Il professor Pierre è un docente, esperto della Fronda, frequentatore dei mercoledì dai Verdurin. La signora Loiseau è proprietaria di una sartoria e possiede delle birichine fresie fucsia. Aimé è il direttore dell’Hotel di Balbec dove il narratore è solito trascorrere le vacanze; non c’è un solo aggettivo, verbo o nome che pronunci senza storpiarlo. Può sentire cento volte al giorno pronunciare un termine in modo corretto: lui continuerà inesorabilmente a deformarlo.

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Si tratta, come avrete notato, per la quasi totalità di esponenti dell’aristocrazia, della altissima e media borghesia, o di artisti; con l’eccezione di Françoise e di pochi altri. Questo significa che soltanto i ricchi e potenti sono partecipi in qualche modo alla magia di Proust? Nient’affatto. Innanzitutto i veri protagonisti, come spiegavo all’inizio, sono oggetti o soggetti chiamati a fare un “mestiere” diverso da quello per cui esistono. E quando nel prodigio sono coinvolte persone in carne e ossa, per la maggior parte delle volte esse sono partecipi inconsapevoli con un pezzo del loro corpo, il volto, i capelli, un occhio, il naso, il cuore, o un atteggiamento o un’intenzione. L’assenza nel mio elenco di personaggi del popolo è quindi semplicemente dovuta al fatto che tra i quattrocento e più della Ricerca la stragrande maggioranza di coloro che hanno un nome e una precisa identità sono i gaudenti che vivono nei castelli e nei prestigiosi palazzi o quei pochi nominati che li circondano come servitori; gli altri sono mere comparse.
Non ha davvero alcuna importanza e non so nemmeno perché lo annoto, ma, a proposito di oggetti, in un saggio di un autorevole commentatore di inizio secolo si accennava al fatto che Proust nella sua opera sterminata non scrive mai il prezzo delle cose. Per amore del vero a pagina 237 delle Fanciulle in fiore (Oscar Mondadori) il narratore scrive che un vaso antico di porcellana cinese gli viene pagato da un mercante diecimila franchi; a pag. 541 dei Guermantes (Gli Struzzi, Einaudi) che una natura morta di Elstir viene pagata trecento franchi; a pag. 127 della Prigioniera (Gli Struzzi, Einaudi) c’è un ambulante che grida otto soldi la mia cipolla! e nella Strada di Swann si legge che una biglia di agata costa cinquanta centesimi di franco. Quest’ultimo prezzo lo si trova a pag. 391 di una rara edizione della Biblioteca del quotidiano la Repubblica che la mia povera moglie mi regalò in un anniversario del nostro matrimonio. Facendomi felice. A proposito di questa edizione, la traduzione di Natalia Ginzburg venne definita, ancora da Giacomo Debenedetti un modello di diligenza, e quasi sempre un saggio di intelligenza molto applicata, attenta, puntuale. Con l’unica eccezione del titolo, Du côté de chez Swann, tradotto topograficamente La via di Swann, trascurando il valore psicologico della preposizione+sostantivo du côté. Dunque molto meglio Dalla parte di Swann, scelto ad esempio da Giovanni Raboni.

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La Repubblica, per chi non ne sia informato, prima della scomparsa dei giornali di carta era uno dei più diffusi quotidiani italiani. E fu anche l’ultimo a chiudere definitivamente i battenti subendo due fendenti, entrambi letali, il primo dai giornali online e il colpo di grazia, quand’era morente, dall’introduzione della censura.

E ora fidatevi di Marcel Proust, il mago che vi porterà per mano a scoprire il mondo dei prodigi, dove l’uomo è una comparsa e comandano le cose. Con lui vivrete un’avventura (consiglio di gustarne qualche goccia al giorno) che vi renderà migliori, purché vi convinciate che tutto quello che leggerete può realmente accadere o sta già accadendo nella stanza accanto, su un orizzonte visibile o dentro la vostra mente.