Fra i quattrocento milioni e il miliardo di anni fa, a differenza degli animali che scelsero di muoversi per trovare il nutrimento indispensabile, le piante presero una decisione evoluzionisticamente opposta. Preferirono non spostarsi, ottenendo dal sole tutta l’energia necessaria a sopravvivere e adattando il proprio corpo alla predazione e agli altri innumerevoli vincoli derivanti dall’essere radicati al terreno.
(Stefano Mancuso, Plant Revolution, Giunti)
Antonia C. passeggiava… o meglio camminava verso una meta, in un sentiero di bassa montagna; sotto i piedi uno sterrato che a tratti lasciava ancora crescere qualche traccia d’erba sulla linea di mezzeria, degradando verso un avvallamento da cui il sentiero, più ripido, si inerpicava verso un bosco a prevalenza di abete rosso e faggio selvatico. Il bosco era la meta di Antonia. Alla sua destra il sentiero era affiancato da un torrente in forte piena autunnale; sulla sinistra, al fondo di un vialetto di accesso, si intravedeva una baita ristrutturata, protetta da un cancello di ingresso e da una cancellata mascherata da un’alta siepe di ortensie bianche. Davanti all’ingresso un vecchio fuoristrada.
Qualcosa attirò l’attenzione di Antonia distraendola dalla sua meta. Dopo un attimo di indecisione, accostandosi alla siepe, accarezzò delicatamente uno dei fiori. Estraendo lo smartphone per scattare un paio di fotografie.
Quindi aprì l’immagine e digitò su condividi inviandola al collega e amico Sandro con la dicitura Che ne pensi?
Un attimo dopo la risposta: Bel fiore dove sei?
Te ne mando un’altra della siepe non la trovi gigantesca?
Un metro e 20 direi
Non meno di 1 60
1 e 60 siepe Hydrangea bianca impossibile manda foto di una foglia
Antonia annuì all’amico come se fosse lì accanto e inviò la terza foto aspettando la risposta.
Dentatura molto larga sperone fiori anomalo. Prendine uno ma non farti beccare.
Ok ora vedo
Ma a Antonia non piacque l’idea di staccare un fiore dalla siepe senza permesso, esitò un attimo e si avvicinò al citofono del cancello, premendo il pulsante. Un ronzio lontano, ma nessuna risposta; attese qualche secondo e premé ancora, un po’ più a lungo.
– Siiì?
– Mi scusi se la disturbo, mi chiamo Antonia. Passavo qui accanto e sono rimasta colpita dalla bellezza della sua siepe di ortensie. Posso chiederle qualche dettaglio sulle piante che ha utilizzato?
– No non può, sto facendo un lavoro, non ho tempo.
Il tono, decisamente scortese, colse Antonia di sorpresa. Tuttavia lei non era persona da demordere facilmente.
– Senta, mi spiace averla disturbata. Posso soltanto chiederle il permesso di prendere uno dei fiori? Così la lascio in pace.
– Non si azzardi… Certo se vuole fare delle fotografie alla siepe e ai fiori non posso impedirglielo. Purché non fotografi anche la casa.
– Grazie. Farò così. Mi scusi ancora.
Se è il caso, pensò Antonia, farò sempre in tempo a ripassare per rubare un fiore a questo stronzo. Poi riprese il cammino verso la sua meta. Quando raggiunse il bosco fece fatica a concentrarsi sui faggi, oggetto di un suo studio fotografico. Ma poi la forma armoniosa dei lunghi rami ricadenti di un fusto della varietà sylvatica pendula e la maestosità di un suo “cugino” a foglia di felce, che doveva essere un “grande vecchio”, la riportò allo scopo della sua meta. Prima di fotografare, come era sua abitudine ne accarezzò delicatamente la sottile corteccia, qua e là fessurata. Quindi, dopo avergli mormorato Scusa il disturbo scattò una decina di immagini.
Il resto del lavoro si prolungò per oltre un’ora; il terreno doveva essere profondo, fresco e ben drenante, per permettere lo sviluppo di esemplari che sembravano sfiorare i 20/25 metri.
Il compagno di Annabel non aveva esagerato – pensò Antonia –: questo bosco è straordinario. Quando ritenne di aver raccolto un numero sufficiente di immagini e relativi appunti, si mise in terra appoggiata al fusto di un albero, per rilassarsi qualche minuto e bere un sorso d’acqua dalla borraccia prima di fare ritorno un chilometro più in basso, allo spiazzo con l’auto parcheggiata. Era una posizione che aveva sempre amato e che l’aiutava a rilasciare lo stress. Chiuse gli occhi e respirò profondamente, come per assaporare meglio il profumo della natura che la avvolgeva. Dopo la meritata pausa, prese lo zainetto appoggiato in terra con la mano sinistra. Avrebbe voluto alzarsi accostando dallo stesso lato il piede ai glutei torcendo il bacino verso il lato opposto e facendo forza sul terreno con l’altro braccio. Il piede, la gamba sinistra e il bacino obbedirono, ma il braccio destro no. Rimase immobile. Impedendole di alzarsi.
– Che diavolo!?
La donna mollò lo zainetto e riprovò la manovra sul lato sinistro, ma questa volta fu la mano sinistra a non obbedire all’impulso del cervello.
– Calma Antonia! Che ti sta succedendo? Calma!
E il suo pensiero corse a un possibile ictus. Allungò entrambe le braccia in avanti, poi le ritirò verso il seno. Così, respirando profondamente, ripeté l’esercizio cinque volte: braccia stese in avanti, braccia raccolte al seno. Stessa cosa con le braccia verso l’alto e di fianco.
– Bene, mi pare che ora tutto funzioni. Pronta a tirarmi su! Braccio destro a terra!
Ma il braccio non accettò l’ordine e rimase inerte. Antonia si sentì persa; avrebbe voluto abbandonarsi al pianto per liberarsi dal panico. Ma non gli riusciva di farlo a comando. Si sentì avvolgere, con la paura, in una coltre vibrante di corrente elettrica, che la sfiorava appena, come una carezza maligna. Posso fare tutto – pensò la donna – ma non alzarmi. Qualcosa mi impedisce di alzarmi. E la sua testa oscillò dall’alto al basso, come per rispondere affermativamente, senza che lei glielo avesse ordinato. Allora raccolse le idee per capire se per caso non si fosse addormentata adagiata al tronco dell’albero e stesse vivendo uno di quei sogni opprimenti in cui nel dormiveglia ti scopri paralizzata, finché qualcosa dall’esterno – il tocco di una mano amorevole, il richiamo di una voce amica, il balzo sul letto del tuo gatto – non ti riporta finalmente allo stato vigile. Ma era consapevole che non poteva trattarsi di un incubo. E quindi decise di giocare fino in fondo quel gioco dell’assurdo.
– Mi è vietato alzarmi?
La sua testa, che non riuscì a fermare, ancora una volta confermò. Tremava e lo sgomento le impediva di articolare una successiva domanda, ma si fece forte del kime, l’estrema determinazione appresa in un ventennio di pratica delle arti marziali. Un’energia ad alta intensità, focalizzata nel plesso solare e da irradiare verso ogni singolo muscolo del corpo: soltanto grazie a questa forza riuscì a infrangere il muro dell’angoscia.
– E chi me lo vieta?
La voce le era uscita strozzata. Nessuna riposta. Immaginò che la regola del gioco probabilmente ammetteva soltanto un sì o un no. Ma si sbagliava.
– C’è qualcuno qua attorno che può controllare i miei movimenti?
– Sì
La conferma questa volta non era venuta dall’oscillazione verticale della testa. Ma dalla sua stessa mente, senza soluzione di continuità dopo la parola movimenti. Antonia suppose di essersi risposta da sola. Ma poi dovette ammettere che non si era trattato di un pensiero fugace. Era un pensiero “spesso”, “solido”. Al punto che le venne il dubbio in realtà di averlo udito. Dovette prenderne atto quando il sì andò ripetendosi due, tre, quattro volte. Fuori dal suo controllo. E fu l’esperienza più scioccante della sua giovane vita. Perché quella concatenazione di sì, non li condivideva e soprattutto non riusciva a trasformarli in un pensiero differente. Tanto meno in un no.
– Ok, mi sembra evidente: ho un disturbo dissociativo.
– No, sono sotto controllo ipnotico.
La nuova elaborazione mentale, anch’essa “spessa”, si era formata con ogni parola separata dalla successiva oltre il tempo naturale necessario. Il tutto accompagnato da una sensazione di straniamento. L’effetto complessivo risultava inquietante. Terribilmente inquietante. Ancora una volta ricorse a tutta la riserva della sua forza interiore per reagire.
– Ehi, questo scherzo non mi piace affatto. Chiunque tu sia, e dove sia, vai a farti fottere e lasciami andare per la mia strada. O magari fatti vedere.
– Sono creature evolute.
Ed anche in questo caso Antonia prendeva la parola e poi ribatteva comunicandosi un pensiero non compatibile con la precedente elaborazione verbale. Si dava una spiegazione estranea a quello che aveva appena affermato.
– Tutto questo significa solo che sto impazzendo.
– Il mio mondo è impazzito.
– Parli del mio mondo: vuol dire che tu… voi siete di un altro mondo?
– Terrestri più evoluti.
– Chi siete?
– Loro sono Rinia.
Questo era troppo. Da dove diavolo era potuto saltar fuori questa denominazione che non aveva mai sentito prima? Antonia dovette accettare un’evidenza fattuale: che il suo cervello riceveva in qualche modo delle spiegazioni che lei si auto comunicava riferendosi in terza persona all’essere o agli esseri che la tenevano in ostaggio.
– Rinia? E cosa volete da me?
– Devo sapere.
– Intendete che io devo sapere? Che cosa devo sapere?
– La terrà tremerà.
– Un terremoto? Ho capito bene? Sarete… sarete voi a provocarlo?
– Rinia lo prevedono.
– E perché volete avvisarmi?
– Domani tornerò con fiducia.
Sul domani tornerò con fiducia la donna sentì rifluire nella testa e nei muscoli, il pieno controllo. Come se le avessero sfilato di dosso il campo di forza che la tratteneva. Afferrò lo zaino, si alzò e corse, rischiando a ogni passo di inciampare, giù dal ripido sentiero, fino al limitare del bosco, e oltre, oltre la baita, fino alla sua auto parcheggiata. Trenta minuti di corsa stremante, affannosa, col cuore in gola che sembrava dover scoppiare da un momento all’altro.
Tre quarti d’ora dopo
Tre quarti d’ora dopo, nel viaggio verso casa, il giornale radio annunciò: Un cordiale saluto a tutti i nostri ascoltatori da Roberto Siniscalco. Una lieve scossa di terremoto, di magnitudo tre, è stata avvertita quindici minuti fa in Italia centrale. È stato precisato che l’epicentro dovrebbe essere tra Assisi e Foligno, a dieci chilometri di profondità. Secondo le prime sommarie informazioni arrivate in redazione non dovrebbero esserci danni alle persone, ma soltanto qualche calcinaccio caduto e un giustificato allarme tra la popolazione nelle due città e nei dintorni. Naturalmente vi terremo informati con gli aggiornamenti nelle prossime edizioni. Ed ora le altre notizie del giornale radio…
Antonia accostò l’auto in una piazzola di sosta, spense il motore e appoggiò la fronte sul volante. Non sapeva, letteralmente, che cosa fare: se fermarsi per fare due passi e riflettere, o proseguire per arrivare il più velocemente possibile a casa e buttarsi nel letto o se tornare indietro a esplorare il bosco, alla ricerca di non sapeva esattamente cosa, approfittando delle ultime ore di luce. E alla fine decise per il rientro veloce e un sonno ristoratore. Il sonno è una preda capricciosa e troppi pensieri, dubbi e inquietudini affollavano la sua mente. Ma alla fine si assopì e in sogno doveva innaffiare la terra dove una giovane siciliana di nome Minica, protagonista di un tragico e tenerissimo romanzo di Camilleri che aveva appena finito di leggere, aveva piantato i suoi piedi per diventare un albero e mettere al mondo il frutto della maternità che il destino le negava.
La svegliò al mattino un messaggio su WhatsApp: era l’amico Sandro che le chiedeva di passare da lui all’orto botanico per portargli l’ortensia rubata. Lei confessò che la missione era fallita, ma accettò comunque di passare al giardino per fare colazione assieme. Alle 12 era sul posto. Sandro stava conducendo una scolaresca nei viali dell’orto e Antonia si aggregò al gruppo per ammazzare il tempo.
– Allora ragazzi, ora passiamo a una pianta davvero interessante: si chiama mimosa pudica sensitiva ed ha, oltre a un bel fiore, uno strano comportamento. Sì, non avete capito male, perché le piante possono sorprenderci muovendosi e a volte reagendo alle sollecitazioni che arrivano dall’esterno. Ora ciascuno di voi passerà accanto ai vasi e sfiorerà una delle foglie con un dito. Forza, e mi raccomando, toccatela con leggerezza, come se voleste accarezzarla.
La dozzina di bambini fecero gioiosamente quello che la guida aveva richiesto e gli ooooh si sprecarono quando ciascuna foglia si ripiegò “pudicamente” su se stessa, accartocciandosi e lasciandosi andare come se fosse morta e rinsecchita.
– Si tratta – spiegò Sandro – di un comportamento quasi sicuramente dovuto alla necessità di sfuggire a un insetto predatore o agli animali erbivori. Ingannandoli. Ma non è tanto questo che rende straordinaria questa pianta, quanto il fatto che se sottoponiamo per una serie di volte la foglia, dopo che si è riaperta, allo stesso stimolo, essa smette di reagire. Perché? Perché ha compreso che quello stimolo non rappresenta un pericolo. Da qualche parte ha conservato la memoria di quello che è accaduto. E in questa stessa parte ha emesso un giudizio. Dove, in che modo, visto che i vegetali non hanno un cervello? Perlomeno un cervello come il nostro. Nessuno è ancora riuscito a chiarirlo.
I bambini sembravano incantati dalla scoperta e si affollarono attorno a Sandro sparando domande a raffica:
– Ma vuol dire che sono furbe? Hanno avuto paura? È perché non può scappare? – E così via.
Il giovane botanico rispose paziente a tutti. E poi invitò i bambini, dopo aver fatto osservare che tutte le foglie, “rassicurate” sul mancato pericolo, avevano ripreso vita, a incamminarsi verso un’altra meraviglia vegetale.
– Se la mimosa pudica vi ha stupito, adesso vi porto da un’altra pianta che vi lascerà letteralmente a bocca aperta. È la Boquilla trifoliata: una rampicante che ha una proprietà quasi magica. È capace di produrre delle foglie che imitano quelle di qualsiasi altra pianta su cui cresce. Ecco guardate: questa è la Boquilla con le foglie nella loro condizione normale. E questa più avanti è sempre la Boquilla che ha imitato il colore, la forma e lo spessore della pianta su cui è cresciuta. Ma la cosa più incredibile, anche se qui non lo vedete, è che la Boquilla può imitare, man mano che cresce, anche due piante differenti così da mimetizzarsi per ogni tratto a quella più vicina. E allora bambini questo che cosa vuol dire? Se io voglio copiare, disegnare, una casa, un tavolo, un pallone devo…. .
– Vederlo – rispose il più sveglio dei piccoli visitatori.
– Già, questo significa – spiegò Sandro – che in un modo o nell’altro le piante vedono. Ma è giusto che sappiate che alle volte le piante si comportano apparentemente da cattive. Ci sono ad esempio alcune piante che producono veleni per impedire ad altre piante di crescere nel territorio: lo fa il noce nero. Un altro esempio riguarda il fico strangolatore. Capita che un uccello becchi un suo frutto e in volo lasci cadere i suoi escrementi, cioè la cacca, che finisce sulla diramazione di due rami di un altro albero. Il seme contenuto negli escrementi si impianta nella corteccia e fiorisce lasciando scendere i propri rami dall’alto della chioma fino ad avvolgere l’albero ospite. A questo punto il fico strangolatore succhia la sua linfa fino a ucciderlo. Il risultato finale, dopo decine di anni, è una pianta cava avvolta a una pianta morta. In natura dobbiamo considerare normali questi comportamenti predatori. E visto che qui abbiamo con noi la mia amica e collega Antonia, chiediamo a lei di raccontarvi qualcosa sull’amicizia, delle piante naturalmente.
Antonia era soprappensiero. Dal giorno prima non riusciva a concentrarsi su qualunque cosa che non fosse l’incredibile… sì era l’unico aggettivo adeguato… esperienza paranormale che aveva vissuto, o che credeva di aver vissuto. Lei, che credeva al paranormale meno che a Babbo Natale, non era affatto certa che quella paralisi, e poi quell’oscillare della testa non voluto, quei pensieri che si formavano nella sua mente senza che lei potesse fare proprio nulla per impedirlo, non fosse stato un sogno o un’allucinazione. Il richiamo di Sandro la riportò alla realtà del luogo, dell’ora, dei bambini che la guardavano aspettando evidentemente qualcosa.
– Sì, scusa Sandro, ero distratta…
– Ho detto ai bambini che siamo amici e che forse tu avresti potuto raccontar loro qualcosa sull’amicizia delle piante… Antonia, stai bene?
– Sì, sì, certo. Certo che posso raccontarvi qualcosa. Che le piante non sono capaci di odiare, ma sono sicuramente capaci di essere amiche le une con le altre. Il faggio ad esempio è un albero ricchissimo di foglie e imponente. Può raggiungere i 35 metri, come un palazzo di 12 piani. È l’albero più frequente nei boschi italiani. Ed è così generoso e sensibile da nutrire un altro faggio, in difficoltà o malato, attraverso un intreccio nel terreno di funghi e radici, con una soluzione zuccherina…
– Mio papà – lo interruppe uno dei piccoli ospiti in visita – dice che in Africa c’è un albero che per abbracciarlo ci vogliono 90 bambini che si tengono per mano.
– Certo, è vero. È in Sudafrica. Credo che tuo papà si riferisca al Sunland baobab: è il più grande del mondo. Purtroppo è malato. Negli ultimi dodici anni in Africa sono morti nove dei tredici alberi più grandi e più antichi. Il Sunland ha 1100 anni.
– E anche i baobab hanno degli amici?
– I baobab… direi proprio di sì. Una scrittrice del Senegal, per esempio, Ken Bugul, è una grande amica di queste magnifiche piante: ha scritto un libro, che si intitola Il baobab folle, dove racconta di un albero che sa pensare, provare dolore e ridere. Folle nel suo caso significa un po’ troppo birichino.
Poco più tardi, a colazione, in un chiosco, stretto tra gli alberi del parco che ospitava l’orto botanico, Antonia, mostrò al collega le foto delle ortensie e della siepe.
– Tu sai – prese a dire Sandro dopo aver osservato con attenzione le immagini – che la mia tesi aveva come principali protagoniste le Hydrangee. Una così non l’ho mai vista e ti assicuro che non è catalogata in nessuno dei testi della mia lunga bibliografia. Bene, vuol dire che hai scoperto la cinquantatreesima specie del suo genere. Quello che non funziona è che questa creatura sconosciuta sia qua attorno, spuntata da non si sa dove e alla vista di chiunque, senza che sia stata notata la sua diversità. Considerato che mi hai coinvolto in questo rompicapo, dimmi almeno dov’è il posto.
– No, non c’è bisogno. Te lo dirò, ma non adesso. Devo tornarci oggi pomeriggio. Ho ancora da scattare qualche foto e prendere qualche appunto. Ruberò un fiore.
– Vuol dire che se ti arrestano mi preoccuperò di portarti le arance. Ma sei sicura di star bene?
– Tranquillo, va tutto bene e non mi farò beccare.
Due ore dopo
Due ore dopo Antonia era nel bosco, in piedi, accanto allo stesso faggio dove 24 ore prima aveva avuto il suo incontro ravvicinato col mistero. La coltre vibrante e la sensazione di straniamento dalla percezione abituale della realtà che la circondava cominciarono a manifestarsi dopo qualche minuto, ma in una forma più blanda rispetto al giorno prima. Antonia era indecisa se attendere o rompere l’indugio: alla fine optò per quest’ultima soluzione.
– Ci siete?
Ancora una volta fu la sua testa a rispondere, affermativamente, cogliendola di sorpresa perché pensava che quella modalità meccanica di dialogo fosse stata superata. Attese, ma tutto taceva.
– Immagino che abbiate qualcosa ancora da dirmi…
Passò un breve tempo che le parve interminabile. Era calma e continuò ad attendere. Poi un nuovo modo di contatto la fece trasalire. Come se il suo interlocutore… i suoi interlocutori volessero dimostrarle di avere l’assoluto controllo del suo corpo e della sua mente. Antonia “vide” la siepe di ortensie bianche che il giorno precedente aveva attirato la sua attenzione.
I pensieri, a seconda del loro contenuto, ci attraversano la mente come frasi o immagini. Le frasi, si articolano come insiemi di parole, verbi, aggettivi, né più né meno che nella lingua scritta e parlata. Solo che non sono né scritte, né pronunciate: vivono, ben mascherate (alle volte non troppo, a causa di una nostra espressione o a causa del linguaggio del corpo) in un recesso della nostra mente. Insomma con soggetto, verbo, complemento oggetto, e tutte quelle parole che fanno parte di una proposizione semplice o complessa, quasi sempre di senso compiuto. Le immagini – il volto di un conoscente, il nostro salotto di casa, un prato, un cane –, dentro un pensiero, sono un qualcosa di molto diverso da quella stessa immagine percepita direttamente dai nostri occhi, in presenza dell’oggetto visualizzato, in una fotografia o in un filmato. La differenza principale è che l’immagine percepita direttamente sta dentro un contesto, di altre cose, animate o inanimate, che lo circondano. In primo piano o ai margini o sullo sfondo, con una precisa collocazione anche temporale. Il pensiero invece isola l’oggetto, la persona pensata e quella che “vediamo” con la nostra mente è un’immagine scontornata e fuggevole.
Ebbene, la visualizzazione mentale della siepe di ortensie apparve a Antonia come un qualcosa di più di un pensiero fuggevole e un qualcosa di meno di un’immagine reale. Era affiorata sfocata, ma inequivocabile, ed era un film in movimento, come se l’operatore vi si stesse avvicinando. O stesse zumando. Poi di colpo scomparve.
– È tutto?
Non ci fu risposta. Antonia attese ancora qualche secondo, quindi cautamente si mosse; senza difficoltà. E tornò sui suoi passi verso la baita; percorse il breve sentiero e suonò, per il secondo giorno, al campanello.
– Sì venga pure avanti, la stavo aspettando, le apro.
Sull’ingresso il visitatore attese che l’ospite diventato affabile si decidesse ad aprirle la porta. E quando lo fece si trovò di fronte un uomo molto vecchio: ma ancora fisicamente possente, cento rughe sul volto e l’ampia fronte, parzialmente coperta da un basco nero, che sui lati lasciava spuntare ciuffi ribelli di capelli bianchi, folti i baffi, due occhi azzurri e accoglienti.
– Si accomodi, non si aspettava vero un uomo così vecchio? La mia voce è ingannevole: non ha voluto invecchiare con il resto del corpo.
– Buongiorno: mi chiamo Antonia, sono la stessa persona che aveva suonato ieri per chiederle il permesso…
– Sì lo so, certo. Io mi chiamo Anselmo. Il cognome… non ha importanza.
La stretta di mano fu robusta da parte di entrambi.
– Se ho capito bene, ha detto che mi stava aspettando?
– Venga. Le va bene se ci sediamo in cucina? Le faccio un caffè?
– Sì, grazie, va benissimo.
– Ha tempo vero? Non è di corsa?
– No… no, non ho altri impegni.
Anselmo smontò la Moka, riempì il bollitore ottagonale di acqua dal rubinetto, al limite della valvola di sicurezza, colmò l’imbuto dosatore con la miscela del caffè, senza comprimerla, ovviamente, avvitò il bricco, accese la fiamma più piccola, a fuoco lento. E si sedette sul lato opposto del tavolo rettangolare, dalla parte più lunga, appoggiando entrambe le mani sul piano e fissando lo sguardo sulla giovane donna che aveva bussato per la seconda volta alla sua porta. La giovane donna aveva apprezzato i gesti accurati e la mano ferma con cui il vecchio aveva portato a termine il suo compito. E gli fu grata quando questi ruppe il silenzio che cominciava a farsi imbarazzante.
– Io la conoscevo, da prima che lei si presentasse ieri alla mia porta. Ho letto il suo libro, L’Universo verde e l’ho molto apprezzato. Ieri di primo acchito, attraverso la finestra, il suo mi è parso un volto conosciuto… non ho fortunatamente bisogno di occhiali… qualche ora dopo ho capito dove l’avevo vista e ho avuto la conferma dalla foto sulla controcopertina del suo libro. Mi sono pentito di averla maltrattata, ma mi ha fatto piacere sapere che sarebbe tornata…
– Da chi ha saputo che sarei tornata?
– Per adesso si accontenti di sapere che qualcuno mi ha avvisato.
– Mi creda, nessuno può averla avvisata. Le sue ortensie sono di una varietà che non avevo mai visto. E volevo domandarle dove ha trovato i semi.
– Non so esattamente da dove provengono, ma è lui che me li ha regalati – indicando verso la finestra –. Il bosco.
– Un regalo del bosco? Mi scusi… in che senso?
– Io passeggio spesso, spessissimo, nel bosco e una decina di anni fa, su un sasso piatto lungo il sentiero, ai piedi di un faggio imponente che è un po’ il mio preferito e che avevo preso l’abitudine di salutare come un amico, ho trovato un mucchietto di semi ben in evidenza. Sul momento non ho capito chi potesse averli dimenticati o lasciati su quel sasso. L’ho capito in seguito… erano un suo omaggio. Un omaggio del bosco…
– Potrebbe essere più esplicito? Non riesco a seguirla.
Il rumore del caffè che usciva dalla cannula interruppe la conversazione. Il vecchio si alzò, sollevò il coperchio del bricco mescolando accuratamente il liquido fuoriuscito, lo richiuse e lo versò in due tazzine, porgendone una all’ospite su di un vassoio rustico di legno, con la zuccheriera. Antonia era confortata dal fatto che il padrone di casa avesse mescolato il caffè prima di versarlo. Perché divideva l’umanità in due categorie: quelli che lo versano senza mescolarlo e quelli che invece lo fanno; detestava i primi ed era riconoscente ai secondi. Antonia lo bevve amaro e bollente, come da sua abitudine: quasi d’un sorso. Anselmo appena zuccherato, ma girò il cucchiaino più del tempo necessario, per farlo raffreddare e poi lo gustò a piccoli sorsi. Quando ebbe bevuto l’ultimo si alzò, liberò l’ospite dall’ingombro della tazzina che pose nel lavandino sciacquandola del residuo di caffè e mettendola a scolare, fece lo stesso con la sua e tornò a sedersi.
– Nel bosco lei ha avuto un’esperienza sconvolgente. È toccata anche a me. Più di cinquant’anni fa. Allora ero un giovane uomo. Giovane come lei. Ho fatto conoscenza con le creature straordinarie che lo abitano.
– Intende… i Rinia?
– Proprio loro.
Antonia venne scossa da un brivido che lo catapultò dall’atmosfera rassicurante dei piccoli gesti casalinghi all’inspiegabile prigionia vissuta il giorno prima e in quello stesso pomeriggio, in balia di entità sconosciute, tra gli abeti e i faggi del bosco. Il volto della persona che la fronteggiava era il volto di una bella persona, di un buon padre, di un vecchio saggio. Il tepore di quella cucina era familiare, ma la familiarità dell’uomo con le misteriose creature che l’avevano tenuta prigioniera non era altrettanto rassicurante.
– Lei… in tutto questo tempo… immagino che abbia anche avuto modo di vederli.
– Lei dunque non ha ancora capito?
– Che cosa dovrei capire?
– Rinia non le dice proprio nulla?
– Mi viene in mente soltanto Rineia, l’isola delle Cicladi. Sta proprio di fronte a Mykonos. È disabitata ma c’è un importante sito archeologico.
– Rhynie è anche un villaggio in Scozia, dove sono stati trovati dei reperti vegetali fossili che risalgono al Devoniano inferiore…
– Certo, sant’iddio, come ho potuto non pensarci, tra i quali i rhynia e le calamite, due antenati preistorici degli attuali vegetali. Ma tutto questo che cosa c’entra con… quelle che definisce creature, che vivono nel bosco.
– Lei considera gli alberi al pari di tutti gli altri esseri viventi?
– Certo e ne ho il massimo rispetto.
– Dal suo saggio mi sembra di capire che lei sia convinta che nella sua evoluzione durata centinaia di milioni di anni il mondo vegetale abbia sviluppato capacità adattative quanto meno pari se non superiori a quelle degli uomini. Che sia convinta che la loro impossibilità di muoversi sia compensata da strategie di sopravvivenza e di riproduzione eccellenti. Che attraverso una loro socialità e intelligenza, mai e poi mai hanno turbato l’equilibrio della natura. Cosa che invece va facendo l’uomo nell’era moderna. Fino purtroppo a un destino ineluttabile di autodistruzione: questo almeno è quello che penso io.
– Anselmo, lei mi sta dicendo…
– È esattamente questo che le sto dicendo: i Rhynia, che hanno controllato la sua mente, sono gli alberi che popolano la terra. E che l’uomo sta distruggendo al ritmo di 15 miliardi ogni anno. Si tratta dell’olocausto della specie più intelligente che abbia popolato il nostro pianeta.
– Lei non sa quello che dice… non sa di cosa parla. Me ne vado. Mi lasci andare.
– È la ragione per cui non potrà raccontare a nessuno, neppure alla persona più cara la sua avventura. Le direbbero che è pazza. Antonia lei è libera di andarsene, naturalmente. Ma se i Rhynia l’hanno mandata qui da me questo pomeriggio è perché lei ha dimostrato di meritare di sopravvivere.
– Sopravvivere? A cosa?
– Gli alberi non hanno scelta. Devono fermare la follia degli uomini, devono impedire loro di finire il lavoro che hanno iniziato: demolire pezzo dopo pezzo questo pianeta…
– Le dico io invece come è andata: lei deve essere uno straordinario illusionista, anche a distanza, e per un motivo che non conosco vuole usarmi per raggiungere un suo scopo. Non so come abbia potuto prevedere un terremoto. Ma probabilmente me lo ha solo fatto credere manipolando la mia mente. Non credo che mi voglia truffare: non ha lo sguardo e se mi permette neppure l’età di un truffatore. Ma io non sto comunque al gioco. Ora mi alzo, me ne vado e la storia finisce qui.
– Antonia lei è una persona perbene. Si ricrederà su di me. Conosce la strada. Troverà il cancello aperto. E se vuole portare un paio di quelle ortensie al suo amico e collega faccia pure.
– Come fa a sapere… come diavolo ha saputo di Sandro? Lei forse mi può leggere nella mente, ma non può leggere i messaggi sul mio smartphone…
– Antonia lei dimentica che Sandro Dominici lavora tra decine di alberi dell’orto botanico, dove avete fatto colazione insieme. Loro erano in ascolto.
Antonia in piedi, il piede sinistro inchiodato al pavimento, il destro sollevato sul tallone in un primo passo non completato per lasciare la cucina del vecchio montanaro, rimase immobile fissando l’interlocutore negli occhi. Le braccia lungo il corpo. Anselmo accennò a un sorriso che era un’esplicita richiesta di fiducia, ma la giovane donna non volle arrendersi a quel balzo nell’assurdo che gli veniva proposto. Arretrò leggermente, come se temesse di essere colpita a tradimento, poi girò le spalle al vecchio, lasciò la cucina, aprì e si chiuse alle spalle la porta di ingresso imboccando il vialetto verso il cancello ancora aperto. Ma non lo superò, rimanendo per una manciata di secondi con la mano destra ad afferrare l’anta che avrebbe dovuto tirarsi dietro per porre una barriera definitiva tra sé e quell’uomo. Infine si voltò tornando sui suoi passi, bussò alla porta, le fu aperto e si diresse in cucina dove tornò a sedersi.
– Tutto questo è semplicemente folle, ma d’accordo, vada pure avanti…
– Come le avevo accennato, a me è capitato cinquant’anni fa. Sono stato contattato dai Rhynia lì, nel bosco, come lei ieri. È stato molto traumatico. Direi spaventoso. Ero sicuro di essere impazzito. Ma giorno dopo giorno, contatto dopo contatto, il dialogo è diventato sempre meno traumatico, sempre più naturale, sempre più facile nella reciproca comprensione. E ora loro sono la mia famiglia, sono miei fratelli, figli, genitori, amici.
– Continui…
– I grandi alberi, ma anche i più piccoli, i boschi, le grandi foreste, sono insiemi di antenne puntate verso il cielo e, come lei sa perfettamente, anche attraverso l’associazione simbiotica tra radici e miceti filamentosi, verso terra, capaci di lanciare e raccogliere messaggi e informazioni ai loro uguali. Questo li rende in grado tra l’altro di avvertire a enormi distanze le prime vibrazioni che preludono a un terremoto e che i sismografi raccolgono soltanto quando aumenta l’intensità. Incrociando i dati di provenienza fino a stabilire con margini bassissimi di errore le sorgenti dei segnali e comprendere con la misura della progressiva intensità quando le scosse scuoteranno le zone colpite. Non c’è una stazione meteorologica in grado di formulare previsioni certe sul clima a distanza anche soltanto di una settimana. Il mondo vegetale, anche in questo caso, avverte con precisione nell’aria le instabilità in arrivo. I Rhynia mi hanno insegnato tutto questo, entrando nella mia mente e hanno ascoltato le mie parole, questa per loro è la parte meno complessa: lo fanno attraverso le onde acustiche che colpiscono l’epidermide delle foglie. In quanto al vedere, beh, lei sarà al corrente che il suo collega Harold Wager, cento anni fa, rese pubbliche le fotografie di persone e paesaggi ricavate usando come lente quella stessa epidermide fogliare che funziona come apparato uditivo e visivo. Wager era su una buona strada, ma nessuno volle dargli ascolto.
Antonia era stata a sentire in silenzio, i suoi occhi umidi, il suo animo profondamente scosso. Era assolutamente senza fiato perché non solo il vecchio, nella sua postura, nello scandire delle parole, nello sguardo, non aveva davvero nulla di folle o minaccioso, ma perché parte, una piccola parte, di quello che sosteneva, lei stessa e i biologi naturalisti più avveduti, lo avevano sempre, in embrione, considerato se non probabile, quanto meno plausibile. Rimanendo, per lei, senza ipotesi e velato di assoluto mistero soltanto il dato della memoria, dimostrata, delle piante, che non ha una sede né riconosciuta né in alcun modo immaginabile. Se non con grossolane ipotesi fantascientifiche.
– A che cosa dovrei sopravvivere?
– A un finale tragico. Per tutti. Tutti gli esseri viventi, animali e vegetali, sin dalle loro origini si sono prefissati un unico scopo: la riproduzione della specie. Nelle modalità più fruttifere. Nient’altro: la lotta per sopravvivere, la preda e il predatore. Poi è arrivato Homo sapiens con la sua coscienza. Che è stato definito un omicida ecologico seriale, che ha inventato la pratica dello sterminio, anche dei suoi simili, e che si è fatto largo spazzando via i Neanderthal, con tutte le altre specie umane, e moltissime specie animali. Comunque per trecentomila anni, nonostante l’irruzione degli uomini negli ultimi “minuti” dalla comparsa della vita, le cose avevano continuato a funzionare bene, secondo l’obiettivo più naturale: la riproduzione della specie. Ma da 150 anni a questa parte si è innescata una spirale perversa che sta… come dire? mandando tutto alla malora. I Rhynia si sono resi conto che non c’è più spazio, che non c’è più tempo. Il loro… più loro che nostro pianeta va salvato ora.
– In che modo?
– La specie umana se nessuno interverrà per modificare il corso degli eventi si autoestinguerà nel giro di altri 150 anni. Trascinando nella catastrofe, tutti gli altri vertebrati e i vegetali.
– Una guerra nucleare?
– Questo è possibile, anzi forse probabile, in qualunque momento, ma non prevedibile. Perlomeno non per gli alberi. Quella che invece è certa è l’ecatombe climatica. Già oggi è troppo tardi per porre rimedio, il punto di non ritorno è stato superato da tempo e i governi dei Paesi ricchi non si assumeranno mai la responsabilità, né potrebbero raggiungere un accordo, se non come vaghe intenzioni, per riportare indietro quanto basta le lancette dell’armonia ecologica.
– E dunque?
– E dunque Homo sapiens deve essere fermato. Salvando le altre specie non autodistruttive. Il mondo riprenderà fiato per gli animali non evoluti e per il regno vegetale. Un detto dei Sioux afferma che gli alberi sono le colonne del mondo e che quando tutti verranno tagliati, il cielo cadrà sopra la terra. Non vogliamo vero che questo accada?
– In che modo i Rhynia ci fermeranno?
– Gli alberi sono estremamente evoluti, ma non hanno, è ovvio, una coscienza. Perlomeno come la nostra. Posseggono una consapevolezza che consente di assimilare le sollecitazioni esterne. Che possono trasformarsi in paura, apprensione, sofferenza. Ma non hanno quella che viene chiamata coscienza di accesso, che permette ad esempio di prendere decisioni ragionate. O di provare pietà o odio. Agiscono, di riflesso, come elaboratori di dati. Sanno chi sono i nemici a agiscono di conseguenza per sopravvivere. Allo stesso modo sanno chi sono gli alleati. Di lei sanno di potersi fidare. E lei deve decidere se vuole sopravvivere. Con lei ci saranno qualche migliaia di altri uomini, donne e bambini, che sopravviveranno. Avranno l’occasione di poter ricominciare tutto daccapo, a nome della razza umana. Sperando che abbia imparato la lezione.
– In che modo?
– Lei deve decidere se vuole sopravvivere.
– Mi dica in che modo?
– Diciamo che ha un paio di mesi di tempo. Se decide di salvarsi potrà portare con sé la sua bambina.
Antonia staccò gli occhi dagli occhi del vecchio e li alzò al soffitto, cercando un qualunque rimedio, che sapeva di non poter trovare, all’angoscia.
– Mi offrirebbe per favore qualcosa di forte?
– Va bene un grappino?
– Va benissimo grazie.
Sorseggiare in silenzio l’acquavite la aiutò a ritrovare la calma e la concentrazione per rielaborare tutto quanto le stava accadendo.
– Lei dunque sa che ho una bambina e che sta col mio ex marito? Per via – si sentì in dovere di aggiungere, come ogni volta che parlava della figlia – delle mie continue trasferte di lavoro…
– Sì lo so. Non potrà salvare nessun altro. Del resto nessuno le darebbe ascolto. Prima di Natale dirà al suo ex marito che porta in vacanza la piccola Aurora. Farà due biglietti aerei per La Paz. Una volta sul posto contatti il Central Ayoreo Nativo del Oriente Boliviano. Le indicheranno una comunità Ayoreo, nella regione del Chaco. Vi accoglieranno e i Rhynia vi proteggeranno. La Bolivia è uno dei Paesi più poveri del mondo, ma hanno promulgato la legge dei Diritti della Madre Terra. È un posto giusto per iniziare una nuova vita. Altri non autoctoni, non più di un migliaio, saranno accolti dagli ultimi abitanti delle foreste e nelle comunità rurali in altri Paesi del mondo.
– Lei Anselmo che cosa farà?
– Io sono troppo vecchio per ricominciare. Nei prossimi giorni ci sarà brutto tempo. Molto brutto. Le previsioni meteorologiche dicono vento forte. Le assicuro che il bosco subirà la peggiore tempesta della sua lunga vita. Lo hanno percepito anche i passeri migratori, che sono ospiti delle fronde, le civette capogrosso e i picchi rossi che hanno il nido nei tronchi. Gli uccelli pare avvertano gli infrasuoni a bassa frequenza generati dai fenomeni tornadici in formazione prima che questi piombino sul posto. Sono suoni che viaggiano per migliaia di chilometri. Gli animali di terra sono inquieti, spaventati, e presto fuggiranno. Se ne sono accorti anche gli alberi. O forse sono gli uccelli che li hanno messi in guardia. Ma purtroppo non possono fuggire. Questo, nonostante il miliardo di anni di evoluzione, non hanno ancora imparato a farlo. Vedremo se sapranno resistere. Io sarò con loro. E se dovessi sopravvivere, vuol dire che quando sarà il momento mangerò la mela avvelenata, come Biancaneve. Ma nessuna principessa verrà a svegliarmi.
– Quando saprò che sarà il momento di partire?
– Non lo saprà. Deve fidarsi di quello che le dico adesso. Se aspetterà troppo, quando comincerà non riuscirà più a partire.
– Quando comincerà cosa?
– Antonia è meglio che lei non sappia. I Rhynia agiranno e quello che avverrà sarà crudele e doloroso. Una mela avvelenata, gliel’ho detto. Ma si sa, se un arto è in cancrena, va amputato. La pietà ucciderebbe tutto il corpo. Gli alberi agiscono secondo un’esigenza. Non avere una coscienza per loro è un vantaggio. È la coscienza che ha reso l’uomo razza dominante e che adesso lo condanna. Ora vada e buona fortuna.
– Credo che andrò ancora nel bosco e cercherò di capire… in che trappola mi sono cacciata…
– Sì Antonia, lo faccia. E in bocca al lupo. Abbracci da parte mia la sua bambina.
La giovane donna così tornò per la terza volta a immergersi in quella comunità di cui fino a un paio di giorni prima aveva ignorato l’essenza nascosta. Questa volta non scelse il solito albero, ma si inoltrò fino nel cuore della schiera di giganti che sembravano accoglierla e scostarsi al suo passaggio. Vide una splendida creatura di abete rosso. Sapeva che un suo conspecifico svedese, chiamato Old Tjikko dal professor Leif Kullman, uno dei massimi esperti delle vite arboree, ha 9000 anni: “soltanto” 600 il tronco, ma le sue radici sono nate nel corso dell’ultima glaciazione. Un giovanotto, rispetto al Pioppo tremulo americano: un’unica creatura vegetale, nello Utah, dotata di migliaia di tronchi e un estesissimo sistema radicale che ha 80 mila anni e forma il più grande e più longevo organismo vivente del mondo.
Chissà – pensò Antonia accostandosi con rispetto all’abete –, magari ha avuto ai suoi piedi anche Antonio Stradivari. Se è così si sarà inchinato, passando oltre, magari perché non ha difetti negli anelli. La sua riflessione si riferiva a quei difetti nella crescita degli anelli annuali che danno al legno le proprietà acustiche tanto utili ai liutai. E si rivolse a quel tronco, alla chioma, ai suoi rami, alle sue foglie aghiformi, alle sue radici profonde, per chiedere:
– Che cosa mi dite di lui?
– Devo sedere e chiudere gli occhi.
Antonia ubbidì all’ordine, perché sapeva di dover andare fino in fondo. Chiuse gli occhi e in pochi istanti la sospensione della sua coscienza divenne profonda, estraniandola dall’ambiente circostante. In sogno vide un bimbo correre al fianco di un cagnolino su un pendio scosceso. Vide un ragazzino maneggiare con dolcezza e senza alcuna protezione il telaio di un’arnia e accogliere sulle mani nude un nugolo di api che si fidavano di lui e di cui lui si fidava. Vide un uomo adulto insegnare alla sua donna come mettere a dimora le fragole scavando i buchi nel terreno morbido. Vide quello stesso uomo piangere in chiesa appoggiando le mani a due feretri, il più piccolo bianco. Vide il vecchio Anselmo accanto a lei nel bosco. Ma quando aprì gli occhi Anselmo non c’era. C’era soltanto il komorebi, quel raggio di luce che filtra dall’alto tra le foglie, e il bisbiglio degli alberi.
Una settimana dopo
Su un’area enorme del Nord-Est italiano, di più di due milioni e mezzo di ettari, con una perturbazione in arrivo da Oriente, un fronte di aria fredda e umida si scontrò con quello in basso troppo caldo (25 gradi a fine ottobre, come in agosto) e troppo secco. Si scatenò una pressione mai registrata ed esplosero venti fino ai 190 chilometri l’ora. Non meno di sette milioni di abeti, pini, cembri, faggi, aceri, pioppi, betulle, vennero spezzati, sradicati, in valli completamente cancellate nelle loro peculiarità ambientali e idrogeologiche, dal Cadore, alla Val di Fiemme, dall’Altopiano di Asiago, alle pendici del Monte Grappa, dal Feltrino, alla Val di Fassa, dalla Val Badia, all’Agordino, alla Valle di San Lucano, alla Val di Zoldo, al Pian del Consiglio, alla Carnia, alla Val Visdende e ai confini dell’Austria e della Slovenia. Anche il bosco degli abeti rossi e dei faggi venne ferito a morte.
La baita di Anselmo resistette: le “chiavi” in castagno di rinforzo agli antichi muri a secco, i possenti travi e le traverse e le pesantissime “lose” di pietra del tetto, ogni opera di Anselmo per riportare in vita quel vecchio rudere, lo avevano reso indistruttibile. Il corpo dell’uomo venne trovato, da una squadra della protezione civile che raggiunse il cimitero di alberi, incastrato sotto il tronco di un faggio che abbracciava, forse in un tentativo disperato di difendersi, o di difenderlo.
Postfazione
Tutto questo si narra che avvenne nell’anno zero prima dell’era dello sterminio. La storia successiva, costellata di dolore e crudeltà, non può appartenere a un breve racconto. La mela avvelenata uccise i due terzi della popolazione umana, ma una volta individuata l’origine della pandemia Homo sapiens reagì all’attacco dei Rhynia mettendo in campo tutte le sue forze, anche nucleari. In un’alleanza mondiale delle principali potenze. Senza eccezioni. Tremila miliardi di alberi vennero dissolti o, su indicazioni unanime delle autorità, uno ad uno semplicemente bruciati vivi, nel giro di poche settimane. La terra di conseguenza e in breve divenne un arido deserto in cui sembrava essere estinta ogni forma di vita animale e vegetale. La polvere dell’infamia umana non si era ancora completamente depositata quando, nel tempo, dal Nord al Sud America, dall’Eurasia all’Africa, all’Oceania, su alcuni tronchi carbonizzati iniziarono a spuntare degli embrioni vegetali con le loro gemme. Pareva un miracolo, ma non lo era. La struttura vegetale, che non contempla un unico centro di comando, ha infatti più chance di sopravvivere di corpi dotati di un cervello.
Ma c’è chi crede che tutto quanto è stato detto sia soltanto una leggenda e che in realtà non sia mai esistita una specie vivente chiamata uomo né nessun’altra forma di vita evoluta senza radici. Comunque sia, ora, a una distanza di tempo siderale, noi alberi viviamo in pace, in un pianeta rinato alla vita e nel perfetto equilibro della Natura.
Costituzione delle piante – Art. 3 La nazione delle piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate.
(La nazione delle piante, Stefano Mancuso, Laterza)
E gli alberi? Qual è il significato
del loro incessante bisbigliare?
Dici: il vento forse ne è informato.
Ma di noi come ha potuto sapere?
(dalla poesia Notorietà, Wislawa Szymborska)
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